giovedì 26 aprile 2018

Dai massimi sistemi ai passeggini da corsa




Ma è la Terra a ruotare attorno al Sole o viceversa? Facile?
E invece no! Guardate che è un problema affatto banale; infatti basandosi solo sulle osservazioni del moto apparente del Sole fra le costellazioni, a causa del moto relativo, è pressoché impossibile arrivare ad una affermazione definitiva. Così, per me, è anche la vita dell’uomo.
L’incessante lavorio del mio cervelletto nel cercare il senso ed il perché di tutto mi porta per lo più a sbattere contro la consapevolezza che tutto sia dannatamente relativo e mutevole. Il mondo cambia, noi stessi cambiamo e di conseguenza anche la nostra percezione delle cose. Diciamocelo francamente, la volontà ha poco spazio nelle nostre scelte. Ognuno fa ciò che fa solo perché gli riesce più facile di qualcos'altro, perché a fare ciò lo hanno portato necessità, casualità, consuetudini, istinto, educazione, ossessioni e tendenze, in modo più o meno consapevole.
Da questa considerazione deriva la mia solita accondiscendenza nel considerare le scelte altrui; ma la competizione con il passeggino da corsa (stroller), mi spiace, io proprio non la riesco a concepire.
Come scriveva il buon Fëdor, lo so “sono un uomo malato, un uomo cattivo, un uomo che non ha nulla di attraente ma a me urta vedere una grande disciplina sportiva profanata da chimere metà uomini e metà carriole.
Lo confesso, io sono tendenzialmente un tradizionalista, lo ero fin da quando, bambino, ero orgoglioso di vestirmi con la camicia, fin da quando mi incaponivo a scrivere con la stilografica. Anche nello sport sono un tradizionalista, amo il ciclismo, rigorosamente su strada, e la corsa, rigorosamente all’interno dello stadio, vero tempio dell’atletica, capace di distillare la purezza delle prestazioni.
Come se non fosse sufficiente essere tradizionalista in un mondo che percorre le sue rotaie a velocità folle e con i freni rotti, sono anche un esteta. Cos'è la bellezza? Per me la bellezza si realizza quando nel caos del mondo, nel marasma del tutto apparente e mutevole, ad un tratto, compare qualcosa che è assolutamente come dovrebbe essere. Così! Fermo immobile! È perfetto così! Per me bello è il gesto sportivo di alcuni atleti, veri maestri della loro arte; la pedalata di Wout Van Aert, la falcata di Laura Muir, non certo uno che corre aggrappato al carrello della spesa
Alla luce di queste mie perversioni è più facile comprendere la repulsione che provo nel vedere in manifestazioni competitive fidal (e lo sottolineo: gare), questi corridori con passeggino. Attenzione, qui non si sta parlando di genitori che cercando di conciliare l’attività fisica con le loro responsabilità familiari, sia chiaro; qui si sta parlando di persone che pretendono di gareggiare con questo stroller e di vedersi riconosciuto il loro risultato in manifestazioni di una federazione che non riconosce questo sport.
È vero, sono stato il primo a dirlo, tutto muta, anche le discipline sportive cambiano. Cercare di congelare l’evoluzione è da pazzi ma, magari, indirizzarla si può. Secondo una teoria cosmologica, dalla nascita dell’Universo il livello di caos è in continuo aumento; tutto si evolve, ma facendolo pure si corrompe, si imbastardisce, smette di essere sé stesso per diventare qualcos’altro e a me fa male vedere l’atletica corrotta in questo modo.
Perché si deve correre una maratona spingendo un passeggino? Quale è il senso, non della volontà di condividere la passione della corsa con il proprio bimbo, ma dell’arroganza che porta alcuni ad arrogarsi il diritto di partecipare in questo modo, contro il regolamento, a gare di atletica? Qual è il senso della presunzione di pretender che la fidal e i suoi giudici riconoscano e tutelino questa attività ludico-motoria?  
La fidal non ha il compito di incentivare lo sport, non è un ente di promozione sportiva, la fidal ha il compito di occuparsi in Italia di atletica leggera. La corsa con carrozzelle con all'interno neonati inconsapevoli non è atletica né, lo spero, lo sarà mai.
Per me l’unico scopo di queste mode è l’esibizionismo, la vanità, il desiderio di emergere dalla massa indistinta dei maratoneti. Entro questo girone io ci ricomprendo ovviamente anche quelli che partecipano travestiti da supereroi, con in testa l’elmo da Vichingo o con le parrucche, tutte pagliacciate che, detto francamente, già alla seconda volta smettono di essere divertenti e diventano patetiche.  
Insomma c’è un modus in rebus, ci deve essere un modus in rebus, altrimenti tutto perde senso. C’è un modo di praticare una disciplina sportiva, può variare un po’ ma non si deve mai venire meno ad una certa serietà. Prendersi un po’ in giro va bene, ma ridicolizzarsi non è buono. Nessun vuole limitare la libertà di espressione; ti piace correre con il passeggino? Ti piace correre vestito da Batman o con lo stereo in spalla? Bene, fallo! La strada è libera, ma non pretendere di farlo in contesti che non sono nati e non esistono per quello. Sorvolo evidenti problemi legati a coperture assicurative o regolamenti interni della federazione (non sono le tavole di Mosè, si possono anche cambiare), a me interessa la ratio che sta dietro a questa questione.
Per concludere, una argomentazione falsa che alcuni adducono per portare avanti le loro ragioni è che essere troppo fiscali e rigidi verso questi modi “alternativi” di interpretare la corsa non faccia bene all'atletica e allontani le persone da essa. Sarò cristallino: ai tanto decantati anni d’oro di Panetta, Cova, Antibo, Mei ecc., tutte queste manifestazioni podistiche, tutti questi tesserati, tutti questi runners e joggers non c’erano. L'’Atletica, quella con la A maiuscola, la fanno gli atleti veri e giovani e sinceramente il contributo che da all'atletica uno che corre spingendo il passeggino o vestito da Spiderman non lo vedo. Si dirà che invece tutto ciò contribuisce a diffondere la cultura sportiva…mah, sarà, i fatti non sembrano dare ragione a questa tesi  

domenica 15 aprile 2018

Salvate il soldato Hawkins!




Avevo già pronto un altro articolo ma questo deve avere la precedenza.
Regolarmente rimbalzano sul web video, per lo più di maratone, in cui un concorrente crolla a terra.
Le reazioni degli altri atleti, qualunque esse siano, generano sempre una moltitudine di commenti.
Non vorrei nemmeno commentare a lungo quelle scene patetiche in cui l’atleta in posizione di rincalzo entra nei panni del Cirenaico e assume su di sé il peso del malcapitato e lo trascina eroicamente fino al traguardo.
Scene targate “stars and stripes”, meritevoli di essere immortalate in una statua come quella postata che commemora la battaglia di Iwo Jima.
Il discorso è semplice. Vi sono 2 casi ed una variante.
Iniziamo con il caso dell’amatore colto da malore, qui, inutile dirlo, il mutuo soccorso degli altri concorrenti non lo definirei nemmeno un atto di merito, è semplicemente un dovere, un gesto di umanità. In questi contesti è probabile che il personale medico e lo staff dell’organizzazione non siano nei paraggi; destare l’attenzione sul problema e fare il possibile per tamponare la situazione è d’obbligo.
Già diversa è la variante in cui si trascina di peso il corpo di qualcun altro al traguardo. Se vi sono problemi seri è meglio rimanere lì dove si è e invocare i soccorsi. Se il problema non è serio, allora la persona raggiungerà da sola il traguardo o si ritirerà con buona pace del il tempo e del risultato. Come ho sentito dire da Mauro Corona “nella vita solo una cosa si fa in due, tutto il resto lo si deve fare da soli”. Ciò che si discosta da queste linee di condotta lo reputo esibizionismo, il vanitas vanitatum sportivo.
Vi è poi il secondo caso, questo riguarda le manifestazioni elite, o la competizione tra i top runners. Questi sono sempre scortati dal personale dell’organizzazione e, giustamente, l’attenzione è puntata su di loro.
Entro nello specifico e analizzo un caso concreto e fresco fresco, ossia il collasso dello scozzese Hawkins durante i giochi del Commonwealth.
https://www.atleticalive.it/53268/raccapricciante-ai-giochi-collassa-il-leader-durante-la-maratona-e-stramazza-a-terra-nessuno-lo-soccorre-per-15-minuti/
Ora, anzitutto alcune premesse:
questi sono atleti che vivono di ciò che producono, ossia risultati sportivi; l’organizzazione è tutta per loro; il loro numero non è mai eccessivo, proprio fornire un’adeguata assistenza a tutti, oltre che per garantire una gara qualitativamente elevata, che possa essere all'altezza della manifestazione.
Cosa avrebbe dovuto fare l’australiano Michael Shelley  (allora in seconda posizione)? Avrebbe dovuto fermarsi? Per fare che?
Non è di certo un medico, non aveva con sé nulla di utile, nemmeno un sorso d’acqua. Quindi, nessuna competenza e nessun aiuto materiale, magari un aiuto morale, un po’ poco.
Bene, c’è comunque chi pensa che avrebbe dovuto fermarsi. E il terzo, come si sarebbe dovuto comportare? Fermarsi, ovvio, diversamente si è sleali. E il quarto? Il quinto? Il sesto?
 Vedete come l’attacco al supposto menefreghismo dell’australiano sia del tutto irrazionale?
Le gare elite sono questo, c’è chi vince e chi insegue, c’è chi è costretto al ritiro e c’è chi invece nemmeno si può presentare ai nastri di partenza a causa di infortuni patiti durante la preparazione. In quest’ultimo caso cosa si dovrebbe fare? Ritirarsi tutti per solidarietà?
C’è una organizzazione che ha il compito, le possibilità e, si spera, le capacità di portare aiuto; in quel punto vi erano anche spettatori (non sappiamo se stessero comunicando con l’atleta); quando è passato l’australiano c’erano già sul posto le motostaffette e il personale di servizio; l’unica cosa sensata che questo poteva fare, e che ha fatto, era proseguire nella sua gara.  
 Io non so se vi siano stati ritardi nei soccorsi, da quel che posso veder qualcuno dello staff si avvicina a Hawkins appena un minuto dopo che egli stramazza al suolo (non 15 minuti dopo come dice il titolo dell’articolo postato); certo non so quando sono arrivati i primi veri soccorsi da parte del personale medico però di certo non si possono incolpare gli altri concorrenti. L’australiano Michael Shelley  ha vinto e lo ha fatto con merito.

domenica 9 aprile 2017

Se questo è un uomo


Stamattina stavo guardando la Maratona di Parigi (chissà se un giorno la farò…) e mentre ammiravo gli straordinari gesti atletici degli atleti africani mi è sorta una sensazione spiacevole.
Osservavo questi atleti spersonalizzati, tutti con nomi simili, tutti con la stessa maglia, la stessa provenienza e gli identici sogni e mi chiedevo chi fossero veramente; certo erano uomini, ciascuno con la propria storia, ma lì per lì, nel momento del massimo sforzo, mi apparivano più come automi, cyborg costruiti in serie.
Anche l’intervista di rito al vincitore mi ha lasciato in bocca lo stesso sapore.
-“raccontaci la tua gara”
-“ero venuto qui per vincere ed ho vinto”.
Punto, fine della storia, nessuno spazio ad impressioni o ad emozioni personali.
La breve e banale risposta, sarà stata sicuramente frutto di una connaturata timidezza di questi atleti, ma in quel momento non faceva altro che alimentare le mie sensazioni.
 Non emergeva alcuna intelligenza, alcuna personalità, erano solo automi il cui nome era molto meno importante del marchio del loro abbigliamento, atleti di cui in pochissimi si ricorderanno, nella maggior parte dei casi già da domani verranno dimenticati o confusi con qualche altro omonimo proveniente dagli altipiani africani.
L’impressione è sempre la stessa, ossia che non importa granché chi sia a vincere, purché sia qualcuno con un certo sponsor. 
Certo, l’atletica è uno sport in cui il confronto diretto tra i grandi atleti è molto limitato. E’ possibile che un maratoneta corra in carriera non più di una decina di gare mentre in altri sport le stagioni sono fatte di più di duecento giorni di corsa e il confronto diretto con gli altri o l’importanza della tattica, della strategia e quindi dell’intelligenza hanno un peso molto maggiore e contribuiscono ad evidenziare le personalità degli atleti.
Questo chiaramente in molte specialità dell’atletica non può avvenire, però ugualmente questa considerazione non mi ha impedito di farmi domande e di mettere in discussione il senso di tutto ciò.
Sono uomini, o sono macchine? Per cosa corrono? Certo, loro per soldi, ma è tutto qui? E’ solo un discorso non molto diverso dalla mercificazione del corpo?

Non so, mi chiedo se questo possa appassionarmi ancora.

giovedì 9 marzo 2017

L'atletica del grottesco


Il fatto:
Nelle ultime settimane, in occasione dei campionati italiani master indoor di Ancona, il centenario Giuseppe Ottaviani ha stabilito il nuovo primato mondiale di salto in lungo nella categoria M100 con la misura di 1m e 16cm diventando pure campione italiano; poiché probabilmente i suoi avversari non sono più “convocabili” da un pezzo.
La sera successiva a questo risultato ho provato a misurare un mio passo, completamente da fermo ed è stato di 1m e 02 cm. Questo banale esperimento rende evidente, sotto un profilo puramente tecnico, il livello della misura ottenuta dal Sig. Ottaviani.
La domanda:
ha senso di esistere tutto ciò?
Mi viene naturale provare ad avere opinioni sulle cose e sui fatti, non per giudicare ma per creare i miei punti cardinali al fine di orientarmi in questo mondo. Insomma, non conosco le risposte ma porsi le domande è già un punto di partenza.
In questo caso ho trovato però molte difficoltà ad esprimere la mia opinione poiché su questo tema ho avvertito il rischio di apparire cinico, persona che non credo di essere. Ci voglio comunque provare.
Parto da questa riflessione: credo che l’obiettivo di ciascuno di noi dovrebbe essere la ricerca della felicità con il vincolo del rispetto per le vite degli altri e della società.
Ritornando al fatto;  se queste performances rendono felice il  Sig. Ottaviani perché non si dovrebbe consentirgli di attaccare il pettorale e gareggiare? Vi è qualche ragione?
A mio avviso sì.
Chiaramente per me Ottaviani è solo un caso che però può essere rappresentativo di tanti altri
Mi risulta che l’evento fosse un campionato italiano di atletica leggera e qualsiasi cosa abbia fatto Ottaviani non era atletica.
Mi si dirà che non ci sono confini netti, tutto è sfumato e relativo. Ebbene, in questo caso mi sembra che si sia ben al di là di una ipotetica riga e per capirlo basti ricorrere al buon senso.
Vogliamo permetter alla gente di competere sino a al momento dell’arrivo dalla signora munita di falce?
Ebbene, lo si faccia pure ma almeno si stabilisca un minimo in termini di risultato sotto il quale non si possa andare.
Io non posso andare ad una Olimpiade perché ovviamente sarei ridicolo ed infatti per evitare ciò le federazioni impongono dei minimi per poter partecipare. Perché oltre ad una certa età dovrebbe essere diverso?
Mesi fa rimbalzò la notizia del canadese Ed Whitlock che ad 85 anni corse una maratona in 3h:56:54.
Questa, a mio modo di vedere, è ancora una prestazione più che dignitosa a livello assoluto, straordinaria per un ultra ottantenne. Percorrere 42 km alla media di 5’:35” al km vuol certamente dire correre. Saltare 1m e 16 con rincorsa per me non vuol più dire saltare, vuol dire far qualcos'altro.
Insomma, manteniamo la dignità che un campionato italiano dovrebbe avere. Bisognerà, prima o poi mettere dei paletti per evitare queste esibizioni, altrimenti si arriverà al punto in cui basterà presentarsi alla linea di partenza per veder sbandierato un fantomatico record.
L’atletica non è uno spettacolo grottesco, mentre per me le espressioni “atletiche” di certi master lo sono perché hanno in loro il seme del ridicolo, dell’innaturale e del deforme.
L’atletica è o dovrebbe essere competizione, bellezza del gesto e del corpo che lo compie, armonia.
Io tutto ciò, nelle categorie SM/SF70 e oltre, spesso non lo ritrovo più, tutto è scaduto, deteriorato, deformato, stravolto.
 Per cui, che senso ha tutto ciò e perché i giornali e i siti d’informazione accolgono la notizia con il solito buonismo italiano?
E’ un modo per sollevare del pietismo? Si vuol solo riportare una notizia buffa e insolita? O peggio, è un velato modo per farsi quattro sghignazzate, come quello che dice “bravo, bravo hai fatto del tuo meglio” ma allo stesso momento schiaccia l’occhiolino ai compagni di burle.
Mi piace pensare che ci sia un tempo per ogni cosa.
Se mi sarà concesso di praticare sport, a livello agonistico, ancora per qualche anno lo farò con contentezza ma  mi auguro che sarò anche in grado di capire quando verrà il momento di dire basta, riprendere in mano la mia vecchia bici e andarmene a fare scampagnate sugli Appennini.

Niente più pettorali o tempi da battere, solo il piacere di stare all'aperto ed esplorare il mondo.




giovedì 17 novembre 2016

L'era del Facilismo



Benvenuti nell'era del facilismo! Facile è meglio, less is more e tutto deve essere smart.

Faccio un passo indietro.
Un paio di settimane fa si correva tranquillamente con un gruppo di amici e sull'onda dei ricordi,si è iniziato a parlare di "antiche" prestazioni dei corridori piacentini; di Tizio che fece 2h 25' alla maratona di New york e di Caio e Sempronio che avevano personali sotto l'ora e dieci in mezza maratona. Il tempo avvolge le cose cose con uno strato di polvere e i fatti con uno strato di mitologia, tuttavia, sebbene gli eventi accaduti nel periodo pre-internet non siano immediatamente verificabili, non stento a credere alla veridicità o verosimiglianza di queste storie.
Ma dove sono finiti questi ottimi atleti dopolavoristi, o meglio, non sono stati rimpiazzati da nessuno? I fatti narrati risalivano a non meno di 15 anni fa. Possibile che ad oggi i migliori piacentini non si avvicinino nemmeno a quelle prestazioni? Cos'è successo? Eppure le ciclabili alla sera sono piene di corridori. A ben vedere però, una infima parte tra questi alla domenica attacca il pettorale e ancor meno consegue risultati di rilievo.
Consapevole che il fenomeno non è solo locale ma quantomeno nazionale, della serie fatti una domanda e datti una risposta, ho iniziato a rimuginare sulla cosa e sono giunto ad una conclusione, sulla quale non voglio esprimere giudizi poiché sono il primo a metter in dubbio le mie opinioni, anche se credo si evincerà chiaramente il mio sentimento.
Il mondo va verso la semplicità e noi con esso. Guardatevi attorno, tutto si semplifica, ormai non ci sono cose per pochi, gli ostacoli vengono aggirati e ci sono le code perfino per salire sull'Everest, quasi fosse la nuova attrazione di Mirabilandia.. Tutti si diplomano, quasi tutti si laureano, le difficoltà nella scuola d'oggi vengono spianate in vista di una società sempre più omogenea e mediocre. I linguaggi si semplificano, si scappa di fronte agli impegni onerosi ed irrevocabili e si è alla perenne ricerca di scorciatoie. Anche nell'arte mi pare di ravvisare derive di questo tipo.
Qualcuno avrebbe da dissentire e direbbe: "sì ma nella tecnica le cose si fanno sempre più complicate". Giusta osservazione ma io risponderei: "vero, ma non certamente per te o per la maggioranza delle persone. Lo smartphone che tieni in mano è una gran bella tecnologia ma tu sai veramente spiegarmene il funzionamento? Probabilmente no, da quando lo hai acquistato la vita ti si è solamente semplificata un pochino".
Perché la stessa cosa non dovrebbe succedere anche nello sport e nell'atletica?
Ed infatti succede, secondo me. In molti corrono ma in pochi lo fanno sul serio e fino in fondo. La maggior parte si accontenta della corsa al parco, con le cuffie nelle orecchie e pensando ad altro e lo fa solo quando ha voglia, quando ne ha il tempo e quando il clima è ideale .
Non lo so, forse il dedicarsi alle cose ma mai totalmente è più salutare, evita di portare a deviazioni ossessive e offre la possibilità di diversificare molto.
Tuttavia mi piace pensare che nella difficoltà ci sia un lato artistico. Le cose belle costano e non solo economicamente.

Rotola i dadi (Charles Bukowski)



Se vuoi provarci,
fallo fino in fondo.
Altrimenti non iniziare.
Se vuoi provarci,
fallo fino in fondo.
Ciò potrebbe significare
perdere ragazze, mogli,
parenti, lavori
e forse la tua mente.
Fallo fino in fondo.
Potrebbe significare
non mangiare per 3 o 4 giorni,
potrebbe significare
gelare in una panchina nel parco,
potrebbe voler dire prigione,
potrebbe voler dire derisione,
scherno, isolamento.
L'isolamento è il regalo.
Tutti gli altri sono
per te una prova della tua resistenza,
di quanto realmente desideri farlo.
E lo farai,
nonostante il rifiuto
e le peggiori avversità.
E sarà meglio di qualsiasi altra cosa
tu possa immaginare.
Se vuoi provarci,
fallo fino in fondo,
non ci sono altre sensazioni
come questa.
Sarai solo con gli dei
e le notti
arderanno tra le fiamme.
Fallo.
Fallo.
Fallo.
Fino in fondo. 
Fino in fondo.
Guiderai la vita fino alla
risata perfetta.
È l'unico buon combattimento che c'è.


 

lunedì 31 ottobre 2016

W IL CICLISMO AMATORIALE





Mi svesto per un momento dei panni attuali per indossare quelli del ciclista che ero. Il mondo del ciclismo amatoriale in questi giorni è scosso in modo evidente da un paio di clamorosi casi di doping.
Non voglio e non mi interessa entrare nello specifico, credo che i nomi siano stati e saranno ripetuti a sufficienza. Voglio solo scrivere un paio di miei pensieri, forse un po' controcorrente.

Gli appassionati si indignano, qualcuno ripropone la vecchia idea di togliere le classifiche, mettendo al bando, de facto,  le competizioni ciclistiche amatoriali. C'è chi parla di falliti del pedale, c'è chi inizia a tracciare confini; da una parte  i veri e genuini cicloamatori e dall'altra gli esaltati della competizione composti da ex agonisti in disgrazia, finti amatori travestiti da professionisti, operai che cercano il loro riscatto sul sellino della bici, illusi cercatori di gloria.
Sbolliamo un momento i rancori, liberiamo il cuore dai sentimenti e proviamo a ragionare con mente fredda.
Anzitutto, non credo vi sia un modo "giusto" di fare qualcosa, e quindi nemmeno un modo "giusto" di fare ciclismo, al massimo uno opportuno o meno.  Nei limiti del non danneggiare la libertà altrui, uno può vivere il proprio sport come meglio crede. Quindi, basta crociate contro quella o quell'altra categoria di ciclisti. 
Lo spazio per tutti c'è, solo che al momento è un open space  dove tutti camminano a vanvera e si scontrano tra di loro.
Il ciclismo, in Italia, è uno dei pochi sport che prevede una netta distinzione tra categorie giovanili, professionistiche e amatoriali. Semplificando, se a 23 anni non sei professionista hai di fronte a te una infinità di modi con cui vivere la tua passione per la bici ma, in pratica, un unico tipo di categoria a cui appartenere. L'amatore.  Non sarebbe giusto creare diverse  tipologie di tesseramento?
E  magari, per chi ama gareggiare, prevedere categorie per merito e non per età? Io inizierei a creare delle stanze nel suddetto open space.
Inutile, poi, scandalizzarsi di fronte ai bari. Le persone che attaccano il numero alla domenica sono le stesse che ci ritroviamo di fronte nella vita reale. Allora, quanti esempi di maleducazione, prevaricazione e violazione delle regole si incontrano ogni giorno? Perché l'ambiente dello sport dovrebbe essere diverso dal resto? Quindi scandalizziamoci per i malesseri della società e non solo per quelli del ciclismo. Soluzioni facili e a breve termine non ve ne sono, al massimo si possono cercare deterrenti. Non è insomma il ciclismo il problema, è la società.
Un'altra cosa; non banalizziamo sempre tutto dicendo che gli amatori sono malati perché si scannano per una bottiglia di salsa. A parte che ognuno vive e lotta per ciò che può e poi, non fa parte del vero spirito olimpico la premiazione simbolica? Agli atleti vincitori del passato non veniva posta sul capo una povera ed  inutile corona d'alloro?
Ovvio, l'ambizione, come qualsiasi passione, può far nascere negli uomini gesti nobili oppure meschini; eppure ha senso togliere la possibilità di far vivere passioni solo perché possono portare a cattive azioni?.
Ha senso eliminare le gare? Il medico per sconfiggere la malattia che fa? Uccide il paziente?
Allora, se questa è la soluzione, rinchiudiamoci nelle nostre stanze e saremo sicuri che non commetteremo più nulla di male...se non  contro noi stessi
Gli amatori non sono una piaga, gli amatori possono essere una risorsa. Sono loro che comprano le bici e tutto il resto ( e sono convinto che senza più gare il mercato ne risentirebbe), sono loro  (ovviamente non solo loro) che contribuiscono a diffondere la cultura ciclistica e l'interesse per il ciclismo.
Mi sta anche bene, al limite,che vengano trattati solo come vacche da mungere, purché siano almeno ben munte e il latte non venga rovesciato per terra.  

    

domenica 23 ottobre 2016

"Il tuo vero avversario sei tu"...siamo sicuri?

Sullo sport ed in particolare sulla corsa esistono una serie di aforismi, citazioni e banalità davvero idiote, ma sopratutto false. Il loro obiettivo è spesso quello di motivare lo sportivo, di incitarlo ed esaltarlo; a me provocano quasi sempre voltastomaco ed un certo malumore. Per essere sinceri, dichiaro la mia avversione, no anzi il mio odio, verso questi tipi di messaggi poiché, pur essendo decontestualizzati e non argomentati pretendono di esprimere giudizi netti e verità assolute. Tutto ciò finisce per essere quanto di più lontano dalla realtà. Mi dichiaro, infatti, relativista poiché niente per me è assoluto.
Potrei prendere in considerazione tantissimi luoghi comuni, ma ho deciso di riflettere su uno di quelli che considero tra i meno banali.
Quante volte, avete sentito o avete ripetuto a voi stessi che la vera gara non è contro gli altri ma contro voi stessi? Immagino diverse. E magari avete pure pensato che questo sia un pensiero giusto, insomma il modo corretto con cui vivere uno sport. Confesso che anche a me è capitato e capita. Voglio, tuttavia, mettere in discussione questo pensiero, o meglio, voglio mettere in discussione l'idea che sia opportuno avere un tale atteggiamento verso lo sport. Tenterò di dimostrare la sua negatività in tre punti.

1° punto: vorrei ma non posso.
Il 99% degli sportivi dichiara di gareggiare in primis contro se stesso perché in realtà non può gareggiare contro gli altri, o almeno sarebbe poco motivante, se non edificante, o avrebbe poco senso. Se l'anno scorso in una maratona sono arrivato 3542° magari decido di correrla nuovamente quest'anno per migliorarmi; ma prepararsi per una maratona è faticoso e non so quante motivazioni possa fornire l'obiettivo di arrivare, che ne so 3487°; molto meglio decidere di migliorare il proprio record personale; suona meglio, no?. Siamo tutti talmente scarsi che preferiamo correre contro noi stessi, piuttosto che contro il Sig. Rossi, che ha il negozio di ferramenta qui a fianco e che, forse, è ancora più scarso di noi. Eppure i campioni dello sport quasi mai gareggiano per migliorare loro stessi, ma lo fanno per arrivare primi. L'obiettivo di Usain Bolt è quello di essere il numero uno, questa stessa estate è stato giustamente osannato ed è diventato ancor più un mito a seguito dei successi olimpici, eppure sono 7 anni che non supera se stesso nei 100m.  Quindi, riassumendo, il punto è: io sono il vero avversario di me stesso, o sono solo l'unico avversario possibile?

2° punto: la scissione dell'Io.
Se io sono l'avversario di me stesso, allora è evidente che ci siano 2 soggetti antagonisti; ciò che ero contrapposto a ciò che sono o ciò che sono contrapposto a ciò che vorrei essere. Fa bene questa cosa? E' salutare? Insomma... dipende da quanto questo duello diventi fondamentale per noi. Il guaio nasce quando il me stesso viene a tal punto idealizzato da diventare irraggiungibile, da essere irrealistico. Vi ricordo il tale che mirava rapito la sua immagine riflessa nello specchio d'acqua. Non ha fatto una bella fine.
Se gareggio invece contro un avversario ben definito non c'è questa separazione dell'Io, al massimo vorrei essere lui, tuttavia, almeno in questo caso, la distanza tra noi e l'altro c'è, è reale e ben marcata; non così labile come tra i miei vari Io.

3° punto:  l'irraggiungibilità del limite. 
Lucrezio, nel De rerum natura argomentava la tesi dell'infinità dell'universo con un esempio. Se un arciere si ponesse ai confini dell'universo e scagliasse la sua freccia questa continuerebbe la sua  corsa anche oltre il supposto limite poiché il nulla, proprio per sua natura, non potrà esserle di ostacolo. Una volta che la freccia sarà ricaduta, nulla vieterà all'arciere di raccoglierla e scagliarla nuovamente, così da spostare ulteriormente l'idea del limite. La stessa cosa può accadere con i propri record, non si può sapere quale sarà l'ultimo e definitivo. Ciò rischia di sfociare in una ossessione . Quando sarà mai abbastanza? Quanto sarà mai sufficiente?
Quando invece si corre contro degli avversari in carne ed ossa, si sa per certo che una volta superato quello che si trova in prima posizione, la vittoria andrà a noi. Riprendendo l'esempio di Bolt, a Rio gli è stato sufficiente arrivare prima di Justin Gatlin per riconfermarsi campione olimpico; è stato sicuramente efficiente, non vi è stato spreco di energie inutili.

Concludendo, secondo me, correre contro gli altri è più sano che correre contro di noi.


Se ho scritto cavolate, perdonatemi. A mia giustificazione, in verità, posso dire che l'inattività causata dalla pubalgia mi sta rendendo nervoso ed irritante.